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Eravamo rimasti al futuro dell’istruzione, al fatto che i sistemi scalabili come mooc ed educazione algoritmica non mantengono le promesse, il sistema di istruzione più efficiente è sempre quello basato sulla presenza fisica (online o dal vivo) di un insegnante. In un mondo in cui a ogni proposta di attività segue la domanda “ma è scalabile?”, per questo approccio bisogna rispondere che no, non è scalabile. Avere un insegnante fisicamente disponibile per un’aula di mille persone è come assistere a una registrazione: le possibilità di rapporto e interazione, e quindi di approfondimento spontaneo e di risposte a domande puntuali, sono praticamente assenti. Ma la mancanza di scalabilità è un male?

Un ragionamento simile l’ho fatto un po’ di tempo fa mentre preparavo il workshop sulle smart city per Ilab. Tra le tante proposte di sistemi per rendere la città smart basate sulla tecnologia, automatizzabili, scalabili, quelle che per me sono più convincenti, meno invasive, più umane sono in realtà due idee che di tecnologia ne usano poca: il Tidy Street Project e il Campo de Cebada, di cui ho già parlato in passato. Queste idee sono belle, funzionano, migliorano la vita, ma quanto sono replicabili? Sono sintetizzabili in un set di buone pratiche esportabile ovunque? O è necessario un lavoro di adattamento che, per forza di cose, varia di città in città, di strada in strada, di fatto rendendo necessario ripartire ogni volta non dico da zero, ma quasi? E’ un male la mancanza di scalabilità, se è determinata dal voler rispettare le esigenze e le particolarità di un luogo e di un insieme di persone?

Aggiungo altra carne al fuoco: questo interessante articolo dell’Atlantic sulle startup che propongono il modello Amazon/Uber per il cibo a domicilio. L’articolo è interessante e anziché citarne pezzi ti invito a leggerlo tutto per comprendere il motivo per cui l’autore ha deciso di non avvalersi più di queste startup, efficienti ma asettiche come Sprig, e utilizzare invece Josephine, un servizio molto low tech che gli dà meno scelta, ma lo mette in contatto con le persone che abitano intorno a lui.

In generale mi pare di avvertire in alcuni degli ambienti che frequento e con cui sono in contatto una reazione, un inizio di fastidio verso l’eccesso di algoritmi nelle nostre vite, ovvero di decisioni prese da altri per il nostro bene senza che a noi sia ben chiaro come e perché quelle decisioni siano state prese. Una reazione verso il nascondere le complessità e il lavoro che c’è dietro le cose,  il che comporta anche nascondere chi lavora dietro le quinte e i suoi problemi. Mi chiedo se questa tendenza di nicchia diventerà un fenomeno diffuso.

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E’ dall’ultima volta che ti ho scritto che rimugino questi argomenti. In effetti, venerdì scorso stavo per mettermi alla tastiera per comporre questa lettera dopo aver terminato, con un anticipo sorprendente per le mie abitudini, di preparare la valigia per Parigi. Poi è arrivato un sms da mia madre che diceva di accendere la televisione.

Non ho nulla da aggiungere a quanto è stato detto a proposito e a sproposito di quanto è avvenuto, se non che provo un immenso dolore per quanto è avvenuto in una città che un tempo giravo con più familiarità di Roma e per i suoi abitanti.

Una delle cose che vengono dette è “non bisogna avere paura”. Affermazione che mi trova del tutto d’accordo. Ma che vuol dire concretamente non avere paura, come si dimostra? Per esempio riflettendo sull’integrazione. E’ facile, quasi inevitabile, che il malcontento si radichi là dove non ci si sente parte della società, dove ci si sente guardati con sospetto dalla comunità, dove ci si sente sempre stranieri, ospiti sgraditi, a mala pena tollerati.

Per ora non aggiungo altro, anche qui devo ancora riflettere prima di parlare. Ma “non avere paura” è un ottimo consiglio. Va applicato in maniera concreta e intelligente.