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Articolo apparso in origine su Tiragraffi.it

Alcune settimane fa ho avuto il piacere di partecipare a Conversational, la trasmissione condotta da Antonio Pavolini in onda ogni sabato alle 12.20 sulle frequenze di Radio Popolare Roma.

Il tema della puntata erano il personal branding e il marketing delle idee. Potete scaricare il podcast da qui.

Credo che nel corso della puntata abbiamo toccato tutti i punti fondamentali del tema. Con queste righe provo a riassumere e riordinare il mio pensiero sul personal branding, partendo dagli appunti che avevo buttato giù per prepararmi alla trasmissione e passando per le suggestioni uscite in trasmissione.

Non penso che sia necessario definire il personal branding. Un po’ perché qui apparteniamo tutti al mondo della comunicazione, quindi divisi tra chi lo sa e chi comunque annuisce con un sorriso largo, anche se un po’ vacuo. Un po’ perché, in realtà, chiunque sia sopravvissuto al liceo sa di cosa stiamo parlando. Al di là del termine inglese che è sempre cool, stiamo parlando della nostra immagine. Personaggi come Tom Peters, Seth Godin, Guy Kawasaki non hanno inventato il personal branding, hanno codificato e divulgato qualcosa che c’era già.

Ora, la grande verità sull’immagine è che ne abbiamo una che lo vogliamo o no. Possiamo sforzarci di proiettare una certa immagine, con lo scopo di collocarci in una certa nicchia, oppure possiamo non curarcene e lasciare che siano gli altri a collocarci in una nicchia. Magari quella degli anticonformisti, che è bella grossa e si trova lì, in fondo a destra nella curva del conformismo.

In campo professionale il personal branding è una questione di signal to noise. C’è una necessità di essere rilevanti e di essere riconosciuti come esperti, dominatori della nicchia. Il branding serve per superare il rumore generato dagli altri appartenenti alla nicchia. E’ necessità di reputazione.

Il che implica il riconoscimento più o meno esplicito di una commoditificazione della professionalità, delle idee, delle persone, che spinge a cercare di distinguersi ed emergere dalla massa.

Più che “io sono/non sono un brand”, il grido di battaglia dovrebbe essere “io non sono una commodity”. Ma questo è un passaggio dall’analisi all’affermazione e non è il caso di mettere troppa carne al fuoco in questo articolo.

Personal branding significa creare una narrativa personale, in cui si diventa attori principali della propria storia per ottenere identità, reputazione, autorità. Queste conferiscono un valore aggiunto al messaggio che aiuta a diffondere le idee, le storie, le motivazioni.

L’ampliamento delle possibilità di contatto e dei canali di comunicazione offerto da Internet da un lato aumenta la necessità di avere una identità propria, dall’altra fornisce vari strumenti per articolare la propria narrativa personale.

Strumenti che, però, aumentando il bacino di contatti e l’esposizione rendono più facile trovare persone che occupano la nostra stesa nicchia e aumentano ulteriormente la necessità di affermare la nostra identità.

E’ evidente la natura circolare della situazione e il conseguente bisogno di un approccio sempre più professionale alla gestione del proprio personal brand.

Un esempio? Io mi chiamo Andrea Nicosia, sono un consulente della comunicazione. C’è un Andrea Nicosia che si occupa di traduzioni. Non sono io. C’è un Andrea Nicosia in politica. Di nuovo, non sono io. Ci sono dei Nicosia, questa volta non Andrea, che hanno aperto la Nicosia & Nicosia, una società di comunicazione. Il mio stesso cognome, il mio stesso mestiere, ma non sono io. Vi risparmio la pioggia di miei omonimi che potete trovare su facebook.

Ora, io non sono ancora un Emanuele Pirella per cui vengo cercato col mio nome a causa del mio mestiere. Ma potete immaginare quanto sia importante per me poter dire “di tutti gli Andrea Nicosia questo sono io”, sia sul piano personale che su quello professionale.

Potete immaginare quanto sia importante dire questo l’ho fatto io. Oppure questo l’ha fatto un mio omonimo. Soprattutto quando ci sono di mezzo foto e alcol.

Potete quindi immaginare quanto sia importante un’azione di personal branding sia per ottenere la reputazione alla quale puntiamo, sia per avere una forma di controllo sui risultati delle ricerche del nostro nome su un motore di ricerca.

Uno degli aspetti più interessanti del personal branding è il fatto che in qualche modo chiude un cerchio. Dalla necessità di dare una personalità a marche e prodotti, ovvero legare attributi umani a un oggetto, siamo arrivati alla necessità di usare gli strumenti del branding degli oggetti sulle persone. Personalità alle persone, insomma. Che fa ridere, se ci pensate. Soprattutto se non leggete quello che scrivo io, ma leggete in rapida successione You Are Not a Brand della scrittrice Maureen Johnson e I’m Not a Writer, I’m a Brand di Suzanne Colon, due articoli che ho trovato quasi contemporaneamente mentre cercavo altro. Piccoli miracoli delle connessioni casuali.

Un altro aspetto secondo me interessante del personal branding è che permette di precisare uno dei tanti attributi di internet.

La rete è democratica. Ma di che tipo di democrazia stiamo parlando? A mio avviso, di una democrazia rappresentativa. Quelli che chiamiamo influencers, che si sono ricavati un ruolo attraverso il proprio personal branding sono i rappresentanti, non eletti esplicitamente, ma che si sono conquistati i gradi sul campo e sempre sul campo possono perderli. Una democrazia in cui in teoria tutti hanno accesso agli strumenti che permettono di essere leader, ma in cui molti sono soddisfatti dal ruolo di follower.