Questo articolo è stato pubblicato in origine su Tiragraffi.

Vi racconto una storia.

E’ la storia di persone che fanno un lavoro simile: gli sceneggiatori e i copywriter. Scrivono dando fondo alla creatività, all’interno di regole e best practices ben definite, per informare, intrattenere, emozionare, farsi ricordare, spingere a compiere un’azione.

I primi hanno vincoli di tempo, spazio e di budget. I secondi sono stati martellati da esigenze di sintesi e chiarezza. Il che non è sbagliato, a meno che non si riduca tutto a liste puntate, liste numerate, piramidi girate di sopra e di sotto e altri sistemi di organizzazione dell’informazione che, portati all’estremo, asciugano talmente tanto il testo che sì, è chiaro e sintetico. E anche appetitoso come una lisca di pesce.

Io penso che il confine tra le due figure si stia assottigliando e che le loro storie si incroceranno spesso. Forse perché qualcuno si è ricordato che il miglior modo per far ricordare qualcosa è attraverso la narrazione. Che si tratti di una pubblicità, un discorso, un comunicato stampa, una brochure, un white paper o un rapporto aziendale, avere una storia che fa da collante aiuta a illustrare i fatti, suscitare emozioni, far presa nella memoria del destinatario.

Poi è arrivato Obama, che di best practices nella comunicazione se ne intende. Nel discorso pronunciato a Chicago, nel giorno della vittoria delle elezioni, ha raccontato la storia di Ann Nixon Cooper, una donna di 106 anni. Raccontando quella storia, Obama ha fatto una carrellata lungo la storia americana, dal passato recente al futuro che lui si augura di realizzare.

Altra gente che si intende di comunicazione è quella di Google. Per spiegare i vantaggi del loro browser Chrome rispetto alla concorrenza hanno realizzato non uno, ma ben due fumetti.

La gente presta attenzione e vi assicuro che l’organizational storytelling ha iniziato a ricevere più attenzioni.

Lo scrittore Massimo Mongai una volta ha affermato che nel campo della ricerca sulla narrazione, gli sceneggiatori sono quelli che negli ultimi anni hanno compiuto il maggior lavoro di analisi e sintesi. Per forza: una sceneggiatura cinematografica o televisiva o per un fumetto ha parecchi vincoli. Soddisfarli tutti e produrre un lavoro che sia divertente, avvincente, emozionante, coinvolgente non è banale.

Cosa ci insegnano quindi gli sceneggiatori? In realtà le stesse cose che insegna chiunque viva di scrittura. Infatti, se appartenete a questa categoria, non troverete niente di nuovo qui. Forse solo un modo diverso di dire qualcosa che già sapete. Se invece siete tra i bocciati al concorso per l’ufficio appalti di Orbetello, potreste voler prendere appunti.

Le parole magiche sono scopo, sintesi, chiarezza e precisione – e se state pensando a Calvino non vi sbagliate.

Una sceneggiatura è composta da scene, il cui scopo è mandare avanti la storia o dire qualcosa sui personaggi. Le scene scritte bene raggiungono entrambi gli scopi. Le scene che non servono a nessuno di questi scopi possono anche essere splendide: vanno eliminate. Come diceva Alfred Hitchcock, il dramma è la vita con le parti noiose tagliate. Il tempo è tiranno e allo spettatore bisogna dare tutta la storia necessaria, senza un solo minuto di troppo.

E una volta che la storia è ridotta alle scene essenziali, queste vanno ridotte ai momenti essenziali. Il mantra è “entrare nella scena tardi, uscirne presto”. Concentrarsi solo sui momenti e battute che servono allo scopo della scena. Il resto è tempo sprecato.

Il parallelo è evidente. Se a “scene” sostituiamo paragrafi, headline, body copy e gli altri elementi propri del business writing, il risultato non cambia: l’unica informazione importante è quella essenziale per raggiungere lo scopo, il resto è fuffa da tagliare. Ma questo distillato può, e dovrebbe, essere organizzato in una storia in grado di colpire il lettore. E più che colpire: soddisfarlo. Come un bel film.

Voi che ne pensate? Il corporate storytelling è solo una moda del momento? La strada del futuro? Conoscete una buona storia?