Una slide che uscirà dalla presentazione sull'Internet of Things che ho tenuto da Inarea per finire in quella sulle Smart City per il workshop che terrò alla LUISS è quella in cui metto a confronto Corviale, le Vele di Scampia e Barcellona. Che hanno in comune due esempi di degrado urbano con una delle città simbolo del recente rinascimento spagnolo e al centro del referendum che pare aver sancito la volontà popolare di chiedere l'indipendenza da Madrid?

Corviale e le Vele soffrono di errori di progettazione comuni. Ma quello che ha veramente bloccato lo sviluppo immaginato e ha gettato nel degrado questi luoghi, oltre al problema politico e culturale, è stata la mancanza di denaro. A un certo punto sono finiti i soldi e le opere che dovevano dare un'anima ai luoghi e renderli vivi e abitabili, non semplici dormitori, non sono state realizzate. Come non sono state realizzate le opere di manutenzione. Questo è un problema comune in tutti i grandi progetti pubblici: il rischio che prima o poi finiscano i soldi e non si effettui più manutenzione è sempre dietro l'angolo.

E Barcellona? Incredibile a dirsi, i soldi sono finiti pure lì. Barcellona è stata per anni, a partire dallo splendido sforzo di pulizia e ammodernamento per le Olimpiadi del 1992, un luogo di sperimentazione e avanguardia. La tecnologia è sempre stata bene accetta e i vari governi della città hanno messo volentieri territorio e cittadini a disposizione di società grandi e piccole che volevano condurre test per le loro soluzioni innovative. Seguendo questo trend, Barcellona è arrivata a essere una celle città più cablate e connesse d'Europa e si contende con Amsterdam e Berlino il titolo di smart city più smart del continente. Immagina quindi la sorpresa della platea dello Smart Cities Expo World Congress 2013 quando Antoni Vives, vice sindaco dell'allora sindaco di Barcellona sempre pronto a dare l'ok a qualche sperimentazione tecnologica, ha dichiarato che  “Odio i progetti pilota, se uno di voi (ce l’aveva con Microsoft e altre compagnie tecnologiche) viene a vendermi un pilota, andatevene, non voglio vedervi. Non ne posso più di strade piene di strumenti. E’ una perdita di tempo, uno spreco di denaro e non portano a niente. Servono solo a vedere qualcosa alla stampa e non funzionano. Datemi soluzioni reali che possano scalare subito.”

E questo era il vicesindaco di un sindaco amico delle corporazioni. Che si è reso conto che i progetti pilota possono pure funzionare bene in fase di test. Ma non sempre sono scalabili, non è sempre facile integrare tra loro i vari sistemi, non sempre il costo per una implementazione a livello di intera città è sostenibile e, se lo fosse, non sempre i costi di manutenzione sono sostenibili.

Ada Colau, il nuovo sindaco di Barcellona espressione del movimento degli Indignados ha completamente cambiato le carte in tavola. Non è contro la tecnologia e la sua applicazione per rendere la città smart. Ma è contraria a progetti e implementazioni il cui unico scopo è permettere alla compagnia che li ha installati di andare in televisione e dire “abbiamo fatto questo o quello!”, senza un reale vantaggio per la città.

Che è un po’ la stessa accusa di Vives. L’applicazione di tecnologia su scala urbana, per Colau, deve servire a creare non una smart city, ma dei cittadini smart, o empowered per rubare una buzzword a Forrester Research. La tecnologia deve essere portata nei quartieri più poveri per portare beneficio a chi vive lì, non ai turisti che affollano il centro.

Io penso che passare dal concetto di smart city a quello di smart citizen sia molto giusto e molto importante. La smart city implica controllo dall’alto, gli smart citizen sono cittadini che possono vivere meglio. Sì, mi pare un’idea migliore e sarà questa la linea di pensiero che proporrò nella lezione alla Luiss. Questa e il fatto che una città per essere smart, ovvero intelligente, non ha bisogno di essere tecnologica. Per esempio, il Campo de Cebada è molto smart.